"Chi ha ragione non ha mai bisogno di gridare" è la frase scelta dal veneto Andrea Vascellari, in arte Lullabier, per spiegare la filosofia di questo suo lavoro di otto brani, tutti caratterizzati da uno stile slowcore molto sognante, sulla scia, come dice lo stesso autore, di Galaxie 500 e Mazzy Star. Non tutti i brani sono composizioni originali: ci sono, infatti, canzoni di Coastal, Rivulets e TMC riviste in italiano. Non è facile cimentarsi in un ambito nel quale già in passato mostri sacri come quelli citati hanno realizzato veri e propri capolavori, usando inoltre il suono e la metrica della lingua italiana, in astratto meno adatti rispetto all'inglese, ma Lullabier fa centro pieno in ogni aspetto. Le melodie trovano il giusto equilibrio tra sfuggevolezza e facilità d'ascolto; le scelte a livello strumentale sono ovviamente all'insegna di una marcata essenzialità ma portano sempre il giusto calore e sanno avvolgere delicatamente l'ascoltatore; l'intonazione vocale e i testi sono sempre ben centrati. Un vero gioiellino per fantasticare sentendosi al sicuro. Il lavoro è uscito insieme a un altro di soli inediti intitolato "Verità Rivestite D'Ombra": urge ascoltare anche quello. (OndaRock)
Ci spostiamo nel trevisano con Lullabier, alias Andrea Vascellari, titolare della neonata netlabel, specializzata in musica cantata in italiano, che pubblica il suo album Mai nulla di troppo (ViVeriVive, 6.9/10). Siamo in territori di psichedelia ’90 tanto cari a Galaxie 500, Low, Red House Painters e compagnia slow folk. Atmosfere sognanti e mantriche, con slowcore e shoegaze a farla da padrone; il cantato si adatta perfettamente alle melodie ipnotiche, e anche dove talvolta prevale venendo fuori dalla musica con più decisione, il risultato è godibile. Chi ha ragione non ha bisogno di gridare, come recita la filosofia dietro al progetto Lullabier. (SentireAscoltare)
Lullabier, e cosa poteva esserci dietro a questo nome se non un cantastorie sensibile ed appassionato.
Mai nulla di troppo è un disco aperto mentalmente ai propri ascoltatori, nel quale un cantautorato impegnato ma non troppo, recita sulle onde di un mare musicale variopinto e ricco di sonorità. Una poetica pastellata, fatta di immagini immobili come polaroid scattate da una memoria che si sofferma volutamente sui particolari della natura; in questo disco si assiste ad un contemplare pacato, quasi metafisco, verso l’human behaviour osservato da un punto di vista privilegiato. Allegorie sottili che sbirciano dal buco della serratura oltre quello che agli occhi ci appare, la realtà è spogliata in diretta, così come ogni canzone punta al cuore!
In cerca di pace apre le danze matissiane, come la brezza salubre dell’alba e richiama subito ad un piacere sincero all’ascolto. Un riff costante ed annegato in un effetto chorus dal sapore acustico concilia con la passionalità di un brano che racconta delle confuse dinamiche della solitudine. E’ un lief motiv ostentato con sicurezza, e che non tradisce all’ascolto ripetuto ed attento.
L’eco orientaleggiante di Nel suo azzurro si fonde ad un beating perentorio che ricorda i primi esperimenti elettronici (Art of Noise?) verso le prospettive techno ed ambient, mantenendo sempre la propria dimensione cantautoriale.
Se volete chiamarlo shoegaze fate pure, ma sarebbe come fare un torto allo splendido lavoro di Lullabier, e se l’intimismo di Calma piatta regala sussulti intrapelle, la lenitiva Paesaggio di neve concede una pausa alle tempie martoriate dai pensieri. L’essenzialità ed il minimalismo di Haiku colpiscono per lungimiranza e risolutezza, tanto che in un solo pensiero si riescono a raccogliere infiniti ragionamenti: «Vecchio albero, sei un vero santuario, illuminami». A maggior ragione i versi di Lullabier fondono un raccontare lucido e pulito nel quale immagini semplici e genuine richiamano ad un associazione diretta verso i sentimenti che contano: ognuno ci può trovare la propria cartina tornasole. Ninnanna sintetica per Promesse nel quale gli echi verso l’onirismo alla Cocteau Twins sono più di un indizio. Che questo sia un disco immerso nelle vibrazioni meno conosciute degli ’80s, è una certezza, eppure la qualità non si discute, poiché sarebbe difficile preferire un brano rispetto ad un altro. L’abilità di questo sound è proprio quello di non scindere le dinamiche sintentiche con l’intreccio delle liriche, sfornando così un lavoro che senza voler essere concettuale fa riflettere (o almeno ci prova!) chi lo ascolta. (Heart of glass)
Dietro a Lullabier sta Andrea Vascellari, un giovane cantautore italiano che assomiglia un po' a Jeremy Warmsley (ma è più bello).
Ad ogni modo, quel che conta veramente è il suo ultimo lavoro: l'ipostasi dello slowcore, tristo sottogenere della musica indie.
Otto brani dalle movenze pacate e cupe, fortemente influenzate da artisti anni '90 quali Galaxie 500 e Codeine.
La voce appare come l'unico barlume d'innocenza nel bel mezzo di una vernice così nera e densa da soffocare ogni forma di vita; quella stessa vita che viene cantata in maniera malinconica, quasi vi fosse un radicato neoplatonismo di fondo. L'ultimo pezzo - intitolato proprio "Nulla Di Troppo" - raccoglie cenni all'arpeggiato tanto caro ai Cure.
Le ispirazioni vengono incanalate dal talento. 8/10 (Loudvision)
Lullabier prova col disco lungo, "Mai nulla di troppo" in cui emergono sapori freak '70 quasi ascetici, quando Alan Sorrenti cercava l'India invece è un Rivulets trevigiano che pizzica corde, rallenta i tempi, fa raddoppiare le voci, mette i bastoni dell'italiano tra le ruote allo psychofolk/sadcore come l'abbiamo conosciuto. (Blow Up)
Andrea Vascellari è uno che sa buttarsi con il paracadute scendere leggiadro come le foglie autunnali e centrare in pieno il punto prestabilito d'atterraggio.
Il suo shoegaze, la sua voce pop (a me ricorda in alcuni brani quella di Dente e di Tommaso dei Perturbazione), l'innegabile decadenza dei testi, la base elettrica che mi coccola l'ha reso uno degli ascolti più piacevoli nelle ore crepuscolari.
Lo consiglio durante uno di quei momenti in cui ci dimentichiamo che al di fuori delle nostre stanze c'è un mondo che non è più a misura d'uomo (forse non lo è mai stato) e che la calma e la bellezza sono parte delle cose che ci salveranno. (Breakfast Jumpers)
Chi è fervente sostenitore dei cosiddetti ‘primi impatti’ concorderà nel capire la positiva reazione di un’ingenua martire di vecchie avanguardie etimologiche nel trovare sul link musicale parole quali Lullabier: mix perfetto di reminiscenze ‘curiane’ e francesismi eclettici. Se poi il tutto è accompagnato da emergenti/menti significativamente capaci si può stare tranquilli. ”Mai Nulla Di Troppo”, partendo dal proprio postulato non delude l’istintivo first impact, e ci getta in giovane avanguardia drone folk-ambient-melodica contornata da minimalismi slowcore-elettro limati su misura interamente dal veneto Andrea Vascellari. Si parte con “In Cerca Di Pace” che controversamente di pace non è carente, almeno nell’angolazione melodica, essendo essa non altro che la sua pura proiezione. È invece apparente quella dell’accettazione di una cruda realtà contornata da vaporoso-ovattate atmosfere. Stando a possibili rifiuti del raffronto, l’incipit di “Nel Suo Azzurro”rimanda all’ultimo capolavoro di coloro che di Lullaby sono i padri creativi: si parte con un ritmato motivo elettrico richiamante il Bloodflowers smithiano che si scontra con leggerezze vocali del Vascellari per un creato unicamente orecchiabile. L’eccezionalità di “Calma Piatta” sta in un ambient etereo-acustico-naturalistico: si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad acque senza fine nel pieno dell’alba. Perché un romanticismo acre sembra il motivo portante della catena espressiva di L. “Paesaggio Di Neve”: piccolo capolavoro con arpeggi familiari. Sarà l’apporto di Teatro Musicato Cosciente a incidere nella mia teatral di coscienza facendomi dilagare nella sua essenzialità a tutto tondo. Di acritica nessuna traccia perché laddove si ha l’incessante desiderio di risentire il brano, ogni giudizio tecnico non ha ragion d’essere. Si inserisce il pezzo in tasca e si cammina tra bui geli nordici ‘senza avere fretta’. Riverberantemente inquietante l’inizio di “Promesse” che foggia una positiva sensazione psichedelica nell’intento pessimistico delineato da marcati ecclettismi. Il testo crea immagini scandite da suoni rigorosi tra sporadici cori duali. Il gusto poetico di Edgar Lee Masters risuscita tra le meste armonie di “Pro Patria” quasi a seguire le orme del Guccini e De André, e di malinconia parlando, “Haiku” convince in minor grado, almeno nel pieno del lucido raziocinio: la ridondanza dello spleen tenue incita a godersi il brano in situazioni tutt’altro che ‘lucide’. Si ultima con la title- track (almeno per ¾)che viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda di ”Calma Piatta” e con i suoi pieni 8 minuti funge da valido riassunto d’insieme. Apatia intelligente, maestria dell’elitaria attesa, indifferenza critica sconosciuta ai più, saggezza della giovane abilità critica, solitaria e crudele maschera di menefreghismo covante all’interno il più sensibile desiderio di sensibilis: ipnotica caduta sotto i sensi. Che continui così…(ExtraMusicMagazine)
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